A me piacciono gli spaghetti grossi. Evito gli “spaghettini”, che – di certo, non mi oppongo – molti dicono essere più indicati per alcune preparazioni, e punto allo spaghetto, allo spaghettone o allo spaghetto alla chitarra. Infatti qui in archivio trovate diverse ricette con questi particolari spaghetti a sezione quadrata, che sono i miei preferiti. Ma il bello è farli in casa, gli spaghetti (o maccheroni) alla chitarra! E sull’argomento ho anche una storia da raccontare.
Era il XX secolo, l’anno esatto non lo so. Il destino portava nell’allora fredda e nebbiosa città del nord molte persone. Persone come Maria, che veniva dall’Abruzzo; non da una città, che in confronto a Milano sarebbe stata comunque ben piccola, ma da un paesino di poche anime della montagna.
Quando la conoscemmo noi non credo avesse più di trentacinque anni; oggi la definiremmo senz’altro ragazza, ma allora i parametri erano ben diversi e poi lei appariva decisamente più anziana. Antica, più che altro. Maria era piccolina, compatta direi – alle elementari ero alta quasi come lei – e scura, pettoruta e ricciuta, riservata e spiccia. Era sposata con un omone che faceva il giardiniere. Anche lui era arrivato a Milano in cerca di fortuna, ma dal Veneto. Il caso del loro incontro non fu mai chiarito.
La Maria che ricordo io cucinava, cucinava e cucinava ancora. Era la sua passione? Non sapeva fare altro? Combatteva la nostalgia? Chi lo sa. Per vederla al lavoro schiacciavo il naso contro il vetro della sua finestra, così ogni tanto mi faceva entrare. Mi lasciava sedere su una di quelle orribili sediette di formica verde che negli anni ’60 hanno imperato nelle cucine “moderne” degli italiani, e mi raccontava qualcosa con la sua lingua della montagna, perché, mentre era impegnata a cucinare in fretta in fretta prima che tornasse il marito, si dimenticava di parlare italiano. Capivo una parola su cento.
Io non ero particolarmente interessata alla cucina, alla ricetta, al “cosa” finiva nel piatto: la mia passione erano gli strumenti (giocavo più con il Meccano che con le bambole, in un’epoca in cui si tendeva decisamente a diversificare i giochi per maschietti e per femminucce) e lei ne aveva uno strano e bellissimo, con i fili. Ci faceva la pasta. E mi piaceva, anche più della macchinetta Imperia per la sfoglia che aveva la mia nonna, perché quella era tutta di acciaio, moderna ed efficiente, mentre la chitarra di Maria era di legno tutto consumato, era di certo fatta a mano e aveva l’aspetto di qualcosa… di qualcosa che esiste da sempre.

Una volta cresciuta e persa di vista Maria, mille volte avrei potuto comperare quello strumento: la chitarra. Ma non l’ho mai fatto; probabilmente pensavo che, tanto, non li avrei mai fatti gli spaghetti come quelli suoi, che uscivano da quelle manine piccole e segnate, accompagnati da quella litania in dialetto e dall’ondeggiare del grosso seno stretto dentro il grembiule.
Poi, a un certo punto, svoltato il secolo, quando ero ormai più vecchia di quanto fosse lei all’epoca dei miei sei anni, ho visto una chitarra in un negozio che adesso non c’è più; era decisamente meno rustica di quella che aveva lei, con i fili d’acciaio – i suoi forse erano di rame, o di ottone – e l’ho comprata. Un piccolo investimento per essere davvero una cuoca pronta a tutto.

E ho iniziato a fare gli spaghetti alla chitarra – che, come dicevamo, si chiamano anche maccheroni alla chitarra o, semplicemente, chitarra – e sono composti di semola di grano duro, un pizzico di sale, un tantino di acqua e uovo/uova. Da uno solo per tutto l’impasto fino a uno per ogni 100 grammi di semola, a seconda delle abitudini famigliari, che un tempo erano dettate anche dalla disponibilità (di uova), ovviamente.
L’origine del formato si fa risalire più o meno alla metà del XVIII secolo, quando pare sia stato inventato il telaio di legno con i fili di metallo. Ma già in precedenza esisteva tra Abruzzo e Molise una tradizione di pasta lunga, spessa e a sezione quadrata, di semola, ma rigorosamente senza uova. Si otteneva, ma in effetti si ottiene ancora, perché esistono ancora sia la tradizione sia lo strumento, con un piccolo matterello “dentato” che si chiama rintrocilo, o rentrocele, che si passa sulle sfoglie tirate più o meno allo spessore di mezzo centimetro e funge da tagliapasta. Il formato di pasta, condito poi con un ragù di carne, prende il nome dallo strumento.
La pasta si prepara come sempre: fontana di semola setacciata, al centro uovo/uova e un pochino di acqua, un pizzico di sale. E poi semola verso il centro con una forchetta e, infine, un bel lavoro di polso, braccia e fianchi. Una volta pronta, come sempre, la pasta va fatta riposare e poi va stesa in una sfoglia non troppo sottile. A mano, oppure – e qui c’è tutta la magia delle azioni sinergiche – con una macchietta tirasfoglia.
La sfoglia va poi tagliata in strisce della giusta larghezza e premuta con il matterello corto sulle corde della chitarra per ottenere degli spaghetti a sezione quadrata, belli corposi e lunghi quanto lo strumento, ovvero una trentina di centimetri.

La pasta può anche essere colorata con lo zafferano – Zafferano dell’Aquila Dop se vogliamo rimanere fedeli alle origini –, ma pure con il nero di seppia se si presenta l’occasione. Lo zafferano va infuso e l’inchiostro sciolto nell’acqua a aggiunto – eventualmente – insieme alle uova. Ah, beh, le mani si sporcano un po’, mettetelo in conto.